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La ruggine del caffè mette in ginocchio le coltivazioni del Centro e Sud America

Il nome scientifico, Hemileia vastatrix, (“devastatrice”, letteralmente) suona già piuttosto sinistro. E i suoi effetti non sono da meno. Stiamo parlando della cosiddetta “ruggine del caffè”, un fungo parassita che colpisce molte piante del genere Coffea e che sta letteralmente flagellando le coltivazioni di caffè centro e sud americane. La storia è veramente emblematica di quanto l’avventatezza, l’imprudenza e l’arroganza dell’uomo possano essere dannose. Originaria probabilmente dell’Africa Orientale, è conosciuta dal lontano 1861,quando è stata segnalata per la prima volta nelle vicinanze del Lago Vittoria, in Tanzania. In breve tempo, utilizzando il trasporto e il commercio umani come vettori involontari, si è diffusa dapprima in Asia (a partire dallo Sri Lanka, dove approdò nel 1867), quindi in tutta l’Asia e nell’Africa centro-meridionale. Nelle Americhe in suo arrivo è relativamente recente, e la prima segnalazione,in Brasile, risale al 1970. Ma il fungo non ha perso tempo, grazie alla trasmissione aerea delle spore, che rendono virtualmente impossibile impedirne l’espansione. Oggi l’infezione interessa tutti i paesi coltivatori di caffè, ma fino a tempi recenti questo parassita sembrava relativamente sotto controllo. E’ da qualche mese invece che una nuova, terribile epidemia sta letteralmente mettendo in ginocchio la produzione dell’America Latina, responsabile di circa il 14% dell’intera produzione mondiale. E le cause sembrano palesemente di origine umana. Per secoli infatti il caffè è stato coltivato all’ombra degli alberi, dove gli arbusti crescevano rigogliosi in perfetto equilibrio con l’ecosistema: insetti, uccelli, altre specie di funghi benefici, in grado di contrastare l’azione dell’Hemileia. Ma l’intervento dell’uomo ha portato al trasferimento delle colture in aree direttamente esposte al sole, ritenute più produttive. Il risultato è stato l’alterazione profonda dell’ecosistema in cui la pianta aveva trovato il proprio equilibrio, eliminando di fatto tutti quegli alleati preziosi in grado di mantenere le coltivazioni in salute. L’azione sinergica dei mutamenti climatici e dell’impoverimento dei suoli ha dato il colpo di grazia. Queste almeno le conclusioni cui è giunto  John Vandermeer, ricercatore dell’Università del Michigan, che da 15 anni lavora a stretto contatto con gli agricoltori di Chiapas e Centro America. Sulla vicenda, Vandermeer è perentorio: la ragione del disastro è da ricercarsi nell’” aver trattato il caffè come se fosse mais, per massimizzare i raccolti”.

La situazione è decisamente allarmante: circa il 10% delle piante è morto, il 30% ha perso tutte le foglie e il 60% ne ha perdute almeno l’80%. Lo studioso non nasconde le proprie preoccupazioni, puntando l’indice contro la gestione avventata della coltivazioni: “Il delicato equilibrio che sostiene le piantagioni si è lentamente alterato fino ad arrivare a un punto di rottura, nel quale la ruggine del caffè ha preso il sopravvento. Può darsi che la roya (così viene anche chiamata dagli agricoltori) si autolimiti e che, dopo l’esplosione di quest’anno, torni a livelli normali, ma può anche accadere che resti una piaga endemica di questa regione, con gravissime conseguenze per i coltivatori, almeno fino a quando non sarà invertita la tendenza a privilegiare le coltivazioni al sole”. Un esempio evidente dell’importanza, spesso sottovalutata, di un’agricoltura in equilibrio con l’ambiente, le risorse naturali, e le specifiche esigenze biologiche delle specie coltivate.

Fonte: il Fatto Alimentare

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