Suolo e Salute

Category: Ecologia – Ambiente – Territorio

Dalle falene un nuovo preoccupante allarme

Notturne per abitudini, spesso mimetiche per strategia evolutiva, le falene raramente attirano la nostra attenzione e sono più frequentemente conosciute e studiate solo da ricercatori e appassionati. Malgrado ciò, esse rappresentano un ingranaggio prezioso e fondamentale nell’equilibrio naturale e in special modo negli agroecosistemi, grazie al loro importante ruolo come impollinatrici e al fatto che costituiscono una delle prede abituali per moltissimi uccelli e pipistrelli. Ora però un nuovo allarme lanciato dal Regno Unito rischia di travalicare il mondo degli addetti ai lavori e diventare di interesse (e preoccupazione) pubblico: secondo il Rapporto Conservazione delle Farfalle realizzato dal  Rothamstead Research, negli ultimi 40 anni ben i due terzi delle specie di falene del Regno Unito hanno subito un calo drastico e tre specie si sono estinte solamente negli ultimi tre anni. Secondo il rapporto, nel corso del XX° secolo si sono estinte circa 2 specie di “moths” (falene, in inglese), un fattore questo considerato dagli autori dello studio “potenzialmente catastrofico” per l’equilibrio della fauna selvatica inglese (e non solo).

Chris Packham, volto televisivo noto oltremanica e vicepresidente della Butterfly Conservation, ha dichiarato infatti che “questi animali sono indicatori chiave che ci permettono di sapere come il nostro ambiente sta evolvendo in un periodo di cambiamenti ambientali senza precedenti. (…) La perdita drammatica e permanente di falene, evidenziata nella relazione,  segnala una perdita potenzialmente catastrofica della biodiversità nella campagna inglese”. Richard Fox, responsabile dell’indagine e autore principale del rapporto, ha sottolineato che il calo della percentuale delle falene porta ad un calo più ampio d’insetti che colpisce l’intero ecosistema e, infine, la catena alimentare umana. “Il calo improvviso e devastante delle falene comuni che abbiamo rilevato è un atto d’accusa schiacciante riguardo al modo in cui la recente attività umana abbia messo in ginocchio la nostra fauna selvatica”.

Riduzione e rimozione di siepi, filari e fiori, uso sistematico di pesticidi e fertilizzanti hanno avuto effetti catastrofici per molti animali ed in particolare per le falene. Dopo le api, un nuovo grido d’allarme della natura mette all’indice l’utilizzo eccessivo della chimica e il modello agricolo intensivo. Non a caso è il Sud della Gran Bretagna a far registrare il calo più significativo, proprio dove l’agricoltura ha subito le trasformazioni più evidenti.

A questi fattori si aggiungono inoltre i cambiamenti climatici in atto, che stanno influenzando profondamente le popolazioni di insetti inglesi: numerose falene (insieme a molte altre specie di insetti) tipiche delle aree meridionali delle isole britanniche infatti si stanno diffondendo verso nord, a tutto discapito delle specie settentrionali, maggiormente colpite dai cambiamenti climatici. Un fenomeno che, su scala più ampia, si può osservare anche nell’afflusso crescente di specie continentali, favorite dalle condizioni più calde degli ultimi anni. L’articolo completo può essere letto in lingua inglese sul sito del Telegraph all’indirizzo  www.telegraph.co.uk

Fonte: AIAB – Telegraph

Gli anfibi, vittime misconosciute dell’avvelenamento da pesticidi

Oltre alle api e alle falene, cui sono riservati sue brevi approfondimenti sul nostro sito, a certificare una volta di più i danni causati all’ambiente dai pesticidi sono questa volta gli anfibi, animali ben noti a tutti ma a tutt’oggi relativamente poco conosciuti e studiati. Secondo la prestigiosissima rivista Nature, che all’argomento ha dedicato uno specifico Scientific Report, i danni causati alla fase terrestre di questi animali (il cui ciclo vitale comprende almeno, come è noto, una fase larvale acquatica) sono decisamente ingenti. Autori del lavoro ricercatori svizzeri e tedeschi che hanno analizzato l’effetto di sette diversi pesticidi (4 fungicidi, 2 erbicidi e un insetticida)   sugli stadi giovanili della Rana comune europea (Rana tempora ria). Ebbene, utilizzando i prodotti secondo quanto prescritto dall’etichetta, la mortalità registrata è variata dal 100% dopo un’ora al 40% dopo sette giorni. Ovviamente, un effetto tanto drammatico sugli anfibi lascia presagire con ampi margini di ragionevolezza un effetto ancora più eclatante su vasta scala, al punto che i ricercatori arrivano ad ipotizzare che proprio l’esposizione ai pesticidi potrebbe essere la causa principale del grave declino di molte specie di rane, rospi e tritoni. Un nuovo elemento a supporto degli allarmi lanciati dagli studiosi e iniziati con gli studi sui neoncotinoidi e i loro effetti sugli insetti pronubi, e che potrebbe precludere a nuove, più efficienti forme di tutela di questi animali e di restrizione nell’uso incontrollato di pesticidi e più in generale nell’adozione di politiche e strategie più sostenibili in campo agricolo e ambientale. Un ulteriore elemento a supporto di quanti, come Suolo e Salute, hanno scelto un’agricoltura biologica, sostenibile, in cui non sia contemplato l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi. Lo studio è consultabile a questo indirizzo.

Fonte: AIAB, Nature

L’Italia sta diventando sempre più calda

Parlano chiaro i dati contenuti nel settimo Rapporto annuale “Gli indicatori del clima in Italia” realizzato dall’ Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), in collaborazione con il Servizio meteorologico dell’Aeronautica militare, l’Unità di ricerca per la climatologia e la meteorologia applicate all’Agricoltura (Cra-Cma), nove diverse Agenzie regionali per la protezione dell’Ambiente (Arpa) e altri enti di ricerca.

Secondo quanto emerge dal rapporto, basato su stime, misurazioni, valutazioni e tendenze riferite agli ultini 50 anni, il 2011 è stato il quarto anno più caldo dal 1961, preceduto solamente dal 1994, dal 2000 e dal 2003. “Il 2011 ha registrato, in Italia, la temperatura media più elevata degli ultimi 50 anni. Un trend confermato a livello globale: in riferimento allo stesso periodo, il 2011 è stato, nel mondo, l’ottavo anno più caldo.  L’anomalia della temperatura media nel nostro Paese, nel 2011, è stata di +1,23 °C, superiore a quella media globale sulla terraferma (+0,73 °C) e risultato della persistenza su gran parte del territorio di anomalie termiche positive, con conseguenti ripercussioni sul numero di giorni con gelo, la frequenza delle notti tropicali e le onde di calore”, si legge nel rapporto.

Analizzando alcuni dati in dettaglio, si capisce come mai sia diffusa (e corretta) la percezione che il clima stia cambiando nella direzione di un evidente innalzamento delle temperature: il 2011, per esempio, è stato il quindicesimo anno consecutivo con valore superiore alla norma per quanto riguarda i giorni estivi. E anche gli indicatori di intensità, durata e numero delle onde di calore collocano il 2011 tra gli anni più caldi degli ultimi dieci lustri. Il numero di giorni estivi nell’anno è stato infatti il sesto in assoluto della serie considerata, mentre il 2011 è stato il decimo della graduatoria per quanto riguarda la frequenza delle notti tropicali ed il quinto per intensità delle onde di calore. Piuttosto marcate le differenze lungo la penisola: se al Nord l’aumento medio delle temperature è stato di +2,74°C rispetto alla norma, questo aumento è stato leggermente inferiore al Centro (+2,41°C), più marcatamente al Sud e nelle Isole (+1,45°C).

Calano al contrario i giorni di gelo, rispetto ai quali il 2011 è stato l’ottavo più basso dell’intera serie, mentre la diminuzione delle precipitazioni, pur registrata, è stati di minore entità, anche se si è assistito a una crescente intensificazione e concentrazione delle piogge in specifici periodi dell’anno: nel 2011, per esempio, i mesi clou sono stati ottobre e novembre, in particolare in Liguria, dove sono stati registrati in diverse località valori record.

L’analisi completa, frutto dei dati provenienti da ben 800 stazioni di rilevamento sparse sull’intero territorio nazionale, è scaricabile a questo link.

 

Fonte: Ispra, Greenplanet

Emergenze ambientali globali: il grido d’allarme lanciato dagli accademici italiani alla vigilia delle elezioni politiche 2013

“La Terra non si governa con l’economia. Le leggi di natura prevalgono sulle leggi dell’uomo”. E’ questo il titolo incisivo dell’appello sottoscritto da oltre 400 studiosi appartenenti a diversi atenei ed istituti di ricerca italiani ed esteri e rivolto ai candidati alle prossime elezioni politiche oramai imminenti. L’intento è quello di attirare l’attenzione su alcuni problemi nodali che l’umanità intera si sta trovando a fronteggiare in questo periodo e che troppo spesso appaiono completamente ignorati da molti rappresentanti della classe politica. Associandoci idealmente al contenuto dell’appello, riportiamo integralmente il testo dell’iniziativa che, tra i primi firmatari, vede Luca Mercalli, climatologo e noto volto televisivo, e Danilo Mainardi, celebre etologo e attualmente professore emerito di ecologia comportamentale presso l’Università di Ca’Foscari di Venezia.

La crisi economica iniziata nel 2008 sottende molti altri segnali di fragilità connessi con:

  • esaurimento delle risorse petrolifere e minerarie di facile estrazione
  • riscaldamento globale, eventi climatici estremi
  • pressione insostenibile sulle risorse naturali, foreste, suolo coltivabile, pesca oceanica
  • instabilità della produzione alimentare globale
  • aumento popolazione (oggi 7 miliardi, 9 nel 2050)
  • perdita di biodiversità – desertificazione
  • distruzione di suolo fertile
  • aumento del livello oceanico e acidificazione delle acque
  • squilibri nel ciclo dell’azoto e del fosforo
  • accumulo di rifiuti tossici e inquinamento persistente dell’aria, delle acque e dei suoli con conseguenze sanitarie per l’Uomo e altre specie viventi
  • difficoltà approvvigionamento acqua potabile in molte regioni del mondo

 

La comunità scientifica internazionale negli ultimi vent’anni ha compiuto enormi progressi nell’analizzare questi elementi. Milioni di articoli rigorosi, avallati da accademie scientifiche internazionali, una su tutte l’International Council for Science, nonché numerosi programmi di ricerca nazionali e internazionali, mostrano la criticità della situazione globale e l’urgente necessità di un cambio di paradigma.

Il dominio culturale delle vecchie idee della crescita economica materiale, dell’aumento del Prodotto Interno Lordo delle Nazioni, della competitività e dell’accrescimento dei consumi persiste nei programmi dei governi come unica via d’uscita di questa crisi epocale. Queste strade sono irrealizzabili a causa dei limiti fisici planetari. Una regola di natura vuole che ad ogni crescita corrisponda una decrescita. La crescita economica, con i paradigmi attuali, segna la decrescita della naturalità del pianeta. I costi economici di queste scelte sono immani e le risorse finanziarie degli stati sono insufficienti a sostenerli.

L’analisi dei problemi inerenti alla realtà fisica del mondo viene continuamente rimossa o minimizzata, rendendo vano l’enorme accumulo di sapere scientifico che potrebbe contribuire alla soluzione di problemi tuttavia sempre più complessi e irreversibili al trascorrere del tempo.

Chiediamo pertanto al mondo dell’informazione di rompere la cortina di indifferenza che impedisce un approfondito dibattito sulla più grande sfida della storia dell’Umanità: la sostenibilità ambientale, estremamente marginale nelle politiche nazionali degli ultimi 20 anni e ad oggi assente dalla campagna elettorale in corso.

Non si dia per scontato che il pensiero unico degli economisti ortodossi sia corretto per definizione. Si apra un confronto rigoroso e documentato con tutte le discipline che riguardano i fattori fondamentali che consentono la vita sulla Terra – i flussi di energia e di materia – e non soltanto i flussi di denaro che rappresentano una sovrastruttura culturale dell’Umanità ormai completamente disconnessa dalla realtà fisico-chimica-biologica.

E’ quest’ultimo complesso di leggi naturali che governa insindacabilmente il pianeta da 4,5 miliardi di anni: non è disponibile a negoziati e non attende le lente decisioni umane.

Fonte: Greenreport.it, Società Italiana di Meteorologia

E le api continuano a scomparire

CCD. Potrebbe sembrare la sigla di un nuovo sistema di sensori, o l’ultimo grido in fatto di monitor e televisori, ma in realtà questa sigla ha un significato assai più concreto e al tempo stesso preoccupante: con questo acronimo infatti gli scienziati americani si riferiscono al “Colony Collapse Disorder” (SSA in italiano, ovvero Sindrome dello spopolamento degli alveari) termine con cui hanno battezzato il fenomeno, osservato proprio in Nord America a partire dalla fine del 2006, della progressiva riduzione del numero di api. Il fenomeno è stato denunciato ripetutamente dagli apicoltori che, nel corso degli ultimi tre lustri, hanno denunciato un calo netto e preoccupante di api e colonie soprattutto (ma non solo) nei paesi del Nord Europa quali Francia, Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Svizzera, ma anche Italia e Spagna. Secondo quanto stimato dalla FAO, ben il 70 specie delle 100 che forniscono la stragrande maggioranza dei prodotti alimentari di tutto il mondo (il 90% circa, per la precisione) sono impollinate da questi insetti. Si tratta pertanto del motore primo non solo dell’agrodiversità, ma ancora di più della complessissima macchina in grado quotidianamente di sfamare coi propri prodotti il genere umano. Forse gioverà ricordare una sinistra ma assai realistica profezia attribuita nientemeno che ad Albert Einstein, secondo la quale nell’eventualità della scomparsa delle api, all’uomo non rimarrebbero che pochi anni di vita. Il problema è serissimo e più volte ci siamo interessati nei nostri articoli di questo argomento. Ma cosa sta uccidendo le api?  Le ipotesi si sprecano. Per alcuni studiosi, la causa è da ricercarsi nel riscaldamento globale. Per altri nelle onde elettromagnetiche connesse alla telefonia cellulare, che disorienterebbero le api impedendo loro di ritrovare la colonia d’origine. Anche agenti patogeni e specie invasive sono stati chiamati in causa (acari, vespe asiatiche, lo scarabeo dell’alveare e così via), unitamente alla crescente presenza di piante geneticamente modificate e al permanere dell’utilizzo di pesticidi nelle campagne.

Non è un caso che, recentemente, la Commissione Europea (si veda a questo proposito il nostro articolo del 7 febbraio u.s. ) abbia proposto la sospensione biennale dell’uso di tre pesticidi appartenenti alla famiglia dei neonicotinoidi, sospettati, in base ad un rapporto dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) di rappresentare un rischio concreto e serio per le api.

Proposta questa ancora non divenuta obbligatoria nei Paesi dell’Unione, ma che nel nostro paese come altrove, ha trovato il convinto supporto di importanti associazioni ambientaliste e non solo, come Legambiente, Slow Food ed Unaapi. Sempre a questo proposito, già a settembre del 2011 è partito in Italia il progetto BeeNet, dedicato al monitoraggio delle api, nel solco delle Direttive Europee in materia, nate con lo scopo di verificare l’interazione tra le colonie di questo preziosissimo insetto e le sostanze chimiche.

Fonte: Greenews.info